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L’importante è evitare la escalation. Perché se è vero che i dazi imposti dal presidente Trump per ora investono solo alluminio e acciaio, non si può escludere che una eventuale ritorsione da parte della Ue su prodotti made in Usa possa riflettersi poi negativamente sulle nostre esportazioni agroalimentari in America e in particolare su vino - che ne è di gran lunga il protagonista - e liquoristica.

Varie ipotesi sul campo

«Possiamo essere ottimisti nell’affermare il non coinvolgimento dei settori vini e spiriti nella roulette dei dazi agli scambi fra Usa e Unione europea - afferma Federvini -  oppure pessimisti fino al catastrofismo di arrivare al blocco totale dei nostri vini». Al momento, ogni ipotesi può essere smentita. Di sicuro sul tavolo ci sono numeri importanti per noi. Gli Usa sono il nostro primo mercato di destinazione (per un valore nel 2017 pari a 1.858 milioni di dollari) che copre quasi il 40% dell’intero valore agroalimentare esportato negli States.

No all’escalation

«Mi auguro non ci sia una escalation di ritorsioni - commenta Micaela Pallini, presidente Gruppo Spiriti di Federvini e amministratore delegato di Pallini - soprattutto nel nostro settore, perché nonostante siano un mercato maturo, gli Usa sono tuttora quello più dinamico che ci garantisce spazi di marginalità: se Bruxelles dovesse applicare dazi all’import di Whisky si aprirebbe uno scenario preoccupante».

Trattativa e focus anche sui dumping sociali

«Abbiamo già vissuto guerre commerciali fra Europa e Usa - rileva Ettore Nicoletto,vicepresidente Gruppo Vini dell’associazione e amministratore delegato di Santa Margherita Gruppo Vinicolo - ma l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno oggi è un riaccendersi delle tensioni fra le due sponde dell’Atlantico: il presidente Trump sta prestando fede al suo programma elettorale, ma la risposta non può essere un “rilancio” con una guerra sui dazi che alla fine vede nell’economia italiana uno dei soggetti più deboli. Inutile ricordare che gli Usa sono per il vino italiano il principale mercato internazionale e che sono moltissime le Cantine italiane che non soltanto esportano, ma che hanno anche avviato realtà commerciali negli Usa in una logica di integrazione con le regole di quel mercato. Un’integrazione “rispettosa” che è stata sì positiva per le Cantine, ma anche per gli interessi degli stessi consumatori statunitensi. La risposta europea non dev’essere di rigida contrapposizione, ma di coerente trattativa all’insegna di quella libertà dei mercati che è uno dei capisaldi della nostra alleanza. Potrebbe essere anche l’occasione per una discussione aperta e serena su quei dumping sociali che a livello globale vanno contrastati con maggiore determinazione».

Il momento d’oro della liquoristica italiana in Usa

La battuta d’arresto provocata da un’eventuale guerra dei dazi su vino e spirits colpirebbe in maniera particolare la liquoristica italiana che negli ultimi quattro o cinque anni ha visto un sensibile incremento di interesse da parte dei consumatori americani. “Fino a cinque fa - continua Pallini - non sarebbe stato possibile trovare in un ristorante americano una carta degli amari, oggi sì e la maggior parte delle etichette è italiana”.

Le esportazioni di bevande spiritose dall’Italia verso gli Usa nei primi 11 mesi del 2017 sono state pari a 113 milioni di euro «e di questi - conferma Federvini - i liquori rappresentano una voce rilevante con 65 milioni: dati in crescita rispetto allo stesso periodo del 2016».

La concorrenza delle produzioni craft locali

«Paghiamo il fatto di non essere riusciti a difendere appieno le nostre denominazioni - rileva la presidente del Gruppo Spiriti - oggi in America crescono produzioni locali di Vermouth, Fernet e Amari, ma anche grosse aziende sono scese in campo, Gallo ad esempio sta producendo Brandy. Se venissero applicati dazi ai nostri prodotti si incrementerebbe il mercato delle produzioni craft locali». La nostra liquoristica sta vivendo un momento di grazia in America, una vera e propria “rinascita” legata al successo della mixology. Una tendenza che si sta cercando di alimentare anche con nuove iniziative, come quelle ideate e realizzate sul mercato statunitense sotto l’egida di The Spirit of Italy anche con il sostegno di Ice. «A rischiare gli effetti di eventuali dazi all’import - conclude Pallini - sono soprattutto le piccole aziende italiane di tradizione che hanno meno strumenti delle multinazionali per difendersi».

Accordi di libero scambio

In definitiva, ricorda Federvini, «è certo che per settori necessariamente vocati all’export il dialogo a colpi di minacce è il peggiore che si possa immaginare: noi abbiamo bisogno dei mercati internazionali; siamo un paese leader nella produzione che deve crescere sui mercati, non possiamo immaginare di riuscire a consumare i nostri prodotti sul mercato interno (anche nell’accezione unionale del termine), quindi, dobbiamo favorire ovunque il dialogo e lo sviluppo di correnti commerciali fondate su accordi di libero scambio».

L’esempio russo

La storia insegna. Basta voltare lo sguardo indietro di pochi anni e vedere cosa è successo in situazioni simili – ma non uguali – con la Russia. Per la crisi politica conseguente le posizioni sulla Crimea e sull’Ucraina furono adottate delle sanzioni: i vini e gli spiriti non erano coinvolti direttamente, ma i nostri flussi commerciali calarono di più del 30% per una serie di effetti collaterali.

 

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